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Il testo del mio intervento al convegno Genitorialità adottiva: legislazione, desideri e nuove prospettive organizzato dalla Regione Toscana, in collaborazione con il Tribunale dei minorenni di Firenze e il Centro Regionale di documentazione per l’infanzia e l’adolescenza.

 

In ogni famiglia si cresce e si cambia, ci si trasforma. Si affrontano insieme, oltre alle gioie e alle tenerezze dell’amarsi, le difficoltà dovute a malattie, lutti, tradimenti, cambiamenti di status socio-economico, separazioni, nuovi incontri… Gli equilibri interni di ogni nucleo familiare sono specifici e particolari e affatto scontati. Ci si influenza giorno dopo giorno nel bene e nel male, in famiglia.

Quando si parla di famiglie adottive a tutto questo si aggiunge l’adozione, ossia il modo in cui si è creata la famiglia. Talvolta, l’adozione invade cosi tanto il campo da offuscare tutto il resto, da sembrar mettere in secondo piano le relazioni familiari stesse. Dei figli e dei loro rapporti con i genitori, con fratelli e sorelle sembra sopravvivere solo la dimensione adottiva. Questo è uno dei punti critici del divenire famiglia adottiva: essere connotati in un modo che può risultare invadente, offuscando i “dettagli” e le specificità delle persone.

Adottare significa accogliere l’alterità e l’estraneità e, l’incontro tra figli e genitori è, per adulti e bambini, un processo costellato di tentativi. Ci si muove nella incertezza, o meglio nella certezza, del non conoscere e del non conoscersi.

Le famiglie adottive sono famiglie costituite per decisione giuridica, dopo analisi da parte dei Servizi e del Tribunale, dopo lunghe attese e percorsi impegnativi, emotivamente e fisicamente. Sono, famiglie pubbliche, rapidamente a contatto – vista l’età di arrivo dei bambini – con le esigenze delle relazioni sociali (ad esempio con l’ingresso a scuola) quando la costruzione delle appartenenze reciproche è appena iniziata. Sono famiglie nate in assenza di una dimensione fisica e sessuale nell’attesa e nell’incontro col figlio; nate da un incontro di biografie e impegnate nel lavoro di accoglienza delle storie reciproche.

Ogni famiglia adottiva tuttavia, è sempre unica, è a modo suo.

Lavorare, dunque, per sostenere le famiglie adottive nei loro passaggi evolutivi, significa non perder di vista la singolarità di ogni famiglia e, al tempo stesso, l’ecosistema in cui vive. Richiede uno sguardo “da vicino e da lontano” che sappia “avvicinarsi” per cogliere il dettaglio ma anche “allontanarsi” per vedere il contesto più vasto, il landscape.

Per cogliere la profondità del panorama serve una visione binoculare, servono più sguardi insieme. Solo allora si possono percepire i chiaroscuri, le differenze e si avverte di guardare un territorio tridimensionale e non una mappa bidimensionale (Bateson).

Mettere insieme diviene, allora, la parola d’ordine, il sine qua non quando si parla di post adozione. Significa che per progettare politiche, interventi e prassi a favore delle famiglie adottive è necessario avvalersi della visione plurale di tutti gli interlocutori, di tutti coloro che se ne occupano (Tribunali, Servizi, Enti autorizzati, Associazioni familiari…). Fortunatamente questa visione sta diffondendosi sempre di più e varie sono le Regioni che ormai impostano processi di formazione e intervento a partire da questo principio. La Commissione Adozioni Internazionali stessa ha rafforzato, grazie ad un approccio organizzativo plurale e poliedrico, inclusivo, il suo impegno sul post adozione aprendolo, ad esempio, ad una vasta platea di fruitori (oltre agli operatori di area giuridica, psicologica e sociale stanno venendo coinvolti anche gli insegnanti, i genitori e i volontari dell’associazionismo familiare). E procede nel suo ruolo di informazione, formazione e promozione culturale avviando prassi “di sistema” con altre istituzioni. Ad esempio sta attualmente costruendo un protocollo operativo con il Ministero dell’Istruzione a rafforzamento e messa e regime di quanto fatto finora sul tema “scuola”.

L’apporto dell’associazionismo familiare è rilevante in questi processi, perché è da li che emerge la voce corale delle famiglie. L’associazionismo familiare … si sviluppa a partire dalla condivisione dei bisogni tra famiglie, mettendo al centro le risorse a volte inespresse delle famiglie stesse, come la capacità di promuovere e fortificare la rete relazionale attorno ai singoli componenti e contrastare l’isolamento e la fragilità dei legami sociali in un’ottica sussidiaria (Ferritti).

In Italia, l’associazionismo è attivatore di molteplici iniziative culturali, formative e di sostegno attraverso gruppi di mutuo aiuto strutturati. E’ interlocutore, con il Coordinamento CARE, di più istituzioni regionali e nazionali ed è grazie a tutto questo che l’Italia, nel 2014, si è dotata, unica in Europa, delle Linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati. Su questo argomento, che mi ha visto coinvolta in prima persona, permettetemi di soffermarmi per i suoi risvolti sociali e di impatto sul post-adozione.

Il mondo della scuola ha fatto ampiamente ricorso, in questi anni, ai suggerimenti delle Linee di indirizzo, tuttavia ha dato loro attuazione piena solo parzialmente e in modo discontinuo. Il CARE ha investigato il fenomeno attraverso varie ricerche. La prima, nel 2019, grazie alle risposte di milleottocento insegnanti e millenovecento genitori, ha rilevato che 2 su 5 genitori adottivi(del campione) ha figli dichiarati con Bisogni Educativi Speciali (BES). Solo il 21% del campione degli insegnanti ha fatto formazione specifica sul tema, solo il 28% di loro dice che è stato nominato un referente adozione nel proprio istituto (come suggerito dalle Linee di indirizzo). Una seconda ricerca, ha evidenziato che il 70% dei genitori intervistati (circa 2500) con figli somaticamente differenti indica come questi abbiano subito, nel tempo, aggressioni o micro-aggressioni razziste. Il 40% di queste aggressioni è avvenuto a scuola. Infine, l’ultima ricerca avviata nel 2021, ancora in corso, indagando sugli esiti dei percorsi formativi dei ragazzi e delle ragazze adottati sembra già segnalare varie criticità nelle scelte formative, nei risultati conclusivi e, soprattutto, nella mobilità sociale dei ragazzi rispetto alla generazione precedente.

La scuola è, da sempre, al centro dell’attenzione delle famiglie adottive, ma è servito del tempo perché il tema si ponesse con altrettanta forza al centro dell’attenzione di tutti coloro che sono preposti al sostegno delle stesse. Nella tenuta delle relazioni familiari, nel dare un senso di continuità e appartenenza ai figli, si esplica certamente la possibilità di garantire il diritto della persona adottata ad avere una famiglia in cui, crescendo, sviluppare le proprie potenzialità. Questa stessa famiglia va, tuttavia, pensata parte degli habitat che vive. Citando Bronfenbrenner e la sua visione dei sistemi ecologici, lo sviluppo delle ragazze e dei ragazzi è influenzato dalle caratteristiche individuali, da quelle ambientali (ad esempio le relazioni familiari e sociali) e da quelle “di sistema” (ad esempio le norme e le leggi, la struttura dei sistemi di welfare). I fattori ambientali e “di sistema” hanno a che fare con il “supporto sociale” e la scuola è nodo cruciale attraverso cui il supporto sociale si esplica. Non a caso sempre più indagini scientifiche, proprio sui percorsi scolastici di alunni e studenti adottati o in affido, mostrano quanto la percezione del supporto ricevuto dagli insegnanti cambi profondamente i risultati quando si parla sia di “voti” sia di cambiamenti nei comportamenti in classe. Insegnare significa “Imprimere/lasciare un segno” e chi insegna fa la differenza.

L’adozione con la sua straordinarietà, con la sua irriducibilità a farsi includere in sceneggiature troppo semplicistiche, costringe a ripensare interamente il concetto di legame e di appartenenza. E’ possibile creare legami potenti e intimi come quelli genitori-figli per mandato giudiziario? E la società che accoglie le famiglie adottive crede in questi legami? Ci credono gli insegnanti e gli operatori cui le famiglie si rivolgono ad esempio nei momenti di crisi? E i genitori adottivi stessi, ci credono? Con quale sguardo vengono viste le famiglie adottive e i bambini e le bambine adottati? Lo “sguardo”, in effetti, è un ingrediente chiave del sostegno di cui stiamo parlando, un sostegno che non prescinde dal contesto, dal landscape, dagli ecosistemi.

I figli portano in famiglia la vita “prima della famiglia” che si è appena formata, una parte di storia “altra” che è solo e vividamente loro. Questo “altro”, questo “prima” entra e non lascia nulla come era.

Racconta una madre in un gruppo di mutuo aiuto:

Questa notte ho sognato una donna con un sari verde. Eravamo collegate via Skype ed io le parlavo di Swati e dei problemi che aveva avuto. Non vedevo il suo volto ma vedevo le sue mani, in grembo. Lei mi ascoltava e la traduttrice le parlava. So che mi ascoltava. Per Swati.

Forse è proprio in questo muoversi in terre sconosciute, che davvero ci si tocca e si diventa parte di una stessa storia. Costruire spazi di sostegno per le famiglie adottive significa avere in mente quanto siano fondamentali i legami di reciproca appartenenza, quanto vadano protetti e nutriti.

Le coppie che si avvicinano all’adozione sono genericamente coppie medio-borghesi, con un livello socio-culturale sopra la media. Rendendosi disponibili ad adottare si allenano a presentarsi presentabili, in grado di gestire il dolore, l’assenza, le relazioni famigliari prima ancora di avere dei figli. Sono chiamate a costruire famiglie capaci di affrontare qualsiasi imprevisto, a mostrarsi forti e pressoché infrangibili. Così sono volute sino alle crisi; la presenza di un pubblico giudicante è una costante allora. Spesso si investono molte energie nella ricerca del colpevole, anche perché parlare di colpe permette di non soffermare il pensiero sulle responsabilità. A seconda dei paradigmi scelti i colpevoli sono i bambini troppo danneggiati, le coppie troppo incapaci, i servizi e gli enti incompetenti, gli operatori impreparati, le istituzioni assenti. Questo è il leitmotiv delle crisi. E in questo leitmotiv si perde una grande occasione, quella di cogliere nella crisi l’opportunità di possibili cambiamenti.

Lavorare oltre una cultura di fallimento significa, evitando la caccia al colpevole, lavorare sulle risorse delle persone (genitori, figli, insegnanti, operatori, ecc.).  Se è vero che il passato influenza il presente, è anche vero che come si percepisce l’effetto del passato dipende da come si vive il presente e in compagnia di chi.

Questa è la responsabilità del contesto, della famiglia stessa e della società che la circonda. Qui torna il potere dello “sguardo”.

La paura che si genera attraverso lo sguardo ha il potere di far ammalare: un potere più grande delle parole stesse, perché le parole si possono discutere, mentre è difficile parlare dello sguardo. (Badaracco)

La nostra storia non è un destino. Ciò che è scritto non lo rimane a lungo. Ciò che è vero oggi domani non lo sarà già più, perché i determinismi umani hanno breve scadenza. Le sofferenze ci costringono a trasformarci e a sperare di cambiare il nostro modo di vivere. Una carenza precoce, per esempio, determina una vulnerabilità temporanea che gli incontri affettivi e sociali possono ricostruire o aggravare. (Cyrulnik)

La scommessa non può che essere quella di realizzare reti di aiuto variegate, efficaci e stabili, che promuovano l’attivazione delle risorse dei singoli e delle famiglie. Reti che puntino a rendere le famiglie autonome dal bisogno troppo costante di un aiuto esterno.

Concludo con le parole di un’altra madre:

Stiamo in questo dannato parchetto da ore e ti arrampichi sempre più su, sulle casette, voli sempre più alto sull’altalena. Tu sei sempre di più e oltre. Tu controlli ed io barcollo e vengo guardata dal mondo intero mentre lo faccio. Sento i loro commenti nella mia testa. E’ il costo che mi fai pagare. In fondo è il tuo modo per rendermi tua madre. Alla fine me ne dimentico dell’effetto che mi fa. Tu sei ed io sono, due voci della stessa coniugazione verbale.

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