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Ricordare significa ripensare, rivedere e rivivere. Significa illuminare con la luce del presente le sensazioni vissute in un tempo differente. Per questo ho deciso di recuperare due brani, dedicati il primo a mio figlio e il secondo a mia figlia, che avevo scritto per il primo magazine di Genitori si diventa. Ricordavo nel 2006 la Kiev dove ero stata nel 2000 e la Phnom Penh dove ero stata nel 2005. Ricordo ancora.

Ricordo, a Kiev

…una metropolitana immensa, arteria pulsante della città: tunnel, archi, strade sotterranee. All’inizio avevo paura di perdermi, non individuavo i punti di riferimento. Mio marito si, ma lui è sempre stato abilissimo nel ritrovare la strada. Poi piano piano il cirillico divenne sempre più familiare: Lissova, Hidropark, Ploshka Lva Tolstoho.

Ploshka Lva Tolstoho, la nostra fermata, alla confluenza con Kreschatik, immensa la strada. Ed ecco in angolo una panetteria. E poi un negozio di souvenir, e poi un piccolo supermercato di stampo sovietico. Si faceva la fila per tutto. Per il pane: fila. Per il latte: fila. Per la pasta: fila. E dovevi parlare in russo per forza perchè se no non ti capivano né ti servivano. Un passo più giù il cambiavalute coi suoi cambi esposti; giorno per giorno vedevi sul cartello l’inflazione che erodeva il valore della grivna. Si cambiavano pochi soldi per volta. Piazza dell’Indipendenza, con la sua enorme fontana dove si poteva quasi passeggiare. Si perchè gli spruzzi andavano a tempo.

E un immensa mattina di sole, mio figlio ormai libero, corse e attraversò mille volte la fontana dell’indipendenza.

Parco Shevchenko, coi suoi alberi imponenti e la sua area per bambini, il primo parchetto di mio figlio, i primi giochi, i suoi primi tentativi di fare amicizia. Lui figlio di un’Ucraina diversa da quella degli altri bambini che correvano felici nelle aree gioco. Lui dalla pelle di un altro colore. Non tutti accettavano i suoi approcci. Poi apparve un bambino con ben due spadini, un Peter Pan che volteggiava tra le corde tese di un gioco a rete, un figlio spavaldo della libertà. Mio figlio lo inseguiva e lo ammirava. A Peter Pan piaceva molto essere ammirato. Gli piaceva mio figlio, questo bimbo avventuroso che si lanciava in avanti … pronto a ricevere accettazione o rifiuto. Riconosceva in mio figlio lo stesso spirito che non si abbatte. Insieme iniziarono a giocare ed io mi sentii madre per la prima volta al parco Shevchenko.

Ricordo una strada in salita che si avvolgeva nel quartiere vecchio e saliva, saliva incessante. Lì c’era la casa di Bulgakov, qui le bancarelle, sempre più su. E alla fine del camminare, come per incanto (chissà se ricordo bene) una chiesa azzurra dalla cupola d’oro. Un azzurro innocente. Un azzurro da golfino dei bambini. Una cupola sfavillante. Dentro accesi una fiammella a queste icone. Una fiammella di ringraziamento.

Nelle Pecherska Lavra, le grotte del monastero, uno dei più sacri monasteri di tutta la Russia, sentii una Russia antica, una Russia fatta di terre conquistate e di radici lontane. L’impero di Caterina II o di Pietro. L’impero che certo aveva conquistato l’Ucraina ma che nell’Ucraina si rispecchiava e che nell’Ucraina ricercava un’identità arcana. Ucraina, immensa terra di confine e conquista, pianura aperta ad eserciti di ogni nazione. Questo monastero era  l’anima di un popolo che và ben oltre l’idea di  precise nazionalità. Camminavamo in tre per le stradine. Incrociavamo preti ortodossi e pensavo … cosa sa della sua terra questo mio figlio?

Il mercato. Il mercato dove quotidianamente facevamo la spesa per noi e per gli altri bambini. Portavamo sempre mele, banane e pomodori, per tutto il gruppo. Le loro vitamine. E ci abituavamo a capire i soldi, a saper ringraziare e chiedere. Guardavamo la gente negli occhi, per capire, capire la terra che ci dava il nostro bambino.

Avanti e indietro per i grandi boulevard, perchè mio figlio all’inizio era affascinato dalla strada. Terra di scoperte e libertà. Per lui le macchine, gli autobus erano festa grande. Per lui le scale mobili della metro erano un gioco. Instancabile e stanchissimo, ingordo di vita.

Non riesco a ricordare un singolo giorno di pioggia. Eppure a volte ha piovuto. A fine agosto era già freddo.

Ci sono dei momenti, a volte, in cui i pensieri sembrano fluidi, in cui la mente sembra andare oltre gli angusti confini del quotidiano. Come per incanto tutto trova un suo senso, un suo significato. Sono momenti rari. E restano scolpiti per sempre nella memoria. A me è capitato in un parco (forse il parco della Fratellanza … quella russo ucraina si intende) una mattina di intenso sole.

Eravamo assieme da due giorni appena e due persone dell’equipe di procuratori che ci seguiva avevano deciso di portarci  “in gita turistica”. Piccolo dettaglio: non c’era la nostra traduttrice. Ricordo la fatica di ascoltare e di cercare di capire, la frustrazione di non riuscire a dire. Ci capivamo tuttavia e quello che riuscivo a comprendere mi apriva spiragli improvvisi di luce sulla realtà delle persone attorno a noi. Ad un certo punto passarono dei soldati, marciando e Valentina chiese a mio figlio: “Guarda, i soldati, cosa fanno secondo te?” Mio figlio imitando il loro passo rispose senza esitare: “Soldat, tanzuvaie!” I soldati danzano. Si i soldati danzano negli occhi di un bambino. Danzano. Hanno danzato a lungo in Unione Sovietica e quel parco ne era testimonianza certa. Nel verde dei prati ben rasati si stagliavano enormi carri armati. I primi veri carri armati della mia vita. Così vicini. Si potevano toccare. Fu lui, Sasha, a spiegarmi che erano carri armati della guerra in Afghanistan. Carri armati dell’Afghanistan. La mia mente andò come in corto circuito. Poi Sasha prese mio figlio e lo mise a sedere su un carro armato. Felice cucciolo alla scoperta del mondo. Ed è così che mio figlio splende in questa foto. Lui, figlio misto di una terra di confine, seduto su un vero carro armato da guerra, per mano ad un tipico russo cinquantenne, ex colonnello del KGB che ora si occupava di adozioni. Ridevo scattando la foto. Rido ancora vedendola. Per la tenerezza. Perchè quella foto mi dice quanto sia strana ed ironica e terribile la vita. In Afghanistan i carri armati sovietici hanno seminato morte. Dall’Afghanistan i reduci sovietici sono tornati mutilati e senza futuro. Li vedevi seduti alle entrate e alle uscite della metropolitana, chiedere rigidamente un’elemosina che doveva costare molta fatica. Mio figlio è il futuro di un mondo, dove le distinzioni di colore non hanno più senso, dove le carcasse delle guerre giacciono nei prati.

Quel pomeriggio Valentina ed Sasha ci portarono con loro alla dacha di Sasha Di fatto una semplicissima e piccolissima casa in campagna sepolta nel verde, nascosta da un’ansa di un Dnipro contaminato nel profondo da Chernobyl cento chilometri più a nord. Ecco, qui davvero eravamo in un territorio non mappato. Dove tutti parlavano veloce, senza agganci o traduzioni. Ci venne riservata una calorosa accoglienza attorno ad un tavolo di legno semplicemente apparecchiato. Io e mio marito accoglievamo quello che ci veniva dato, senza pretendere di essere diversi da quel che eravamo, stranieri provenienti da un mondo lontano. Con la zuppa di grano, le aringhe salate, i cetrioli marinati brindare con un bicchiere di vodka non ci stava poi così male. E quindi, senza esitare abbiamo partecipato ai brindisi, alzandoci in piedi quando si doveva e bevendo sino in fondo. Alla nostra e vostra salute. E soprattutto a quella di nostro figlio. E nostro figlio? Eccolo rimpinzarsi di zuppa e cetrioli, cocomero e pane. A pancia piena apparve stanco e venne lestamente spedito a letto di sopra … con la vecchia nonna. Io lo seguii veloce e al di là di ogni mia immaginazione ci trovammo stesi su un letto in tre: io, lui e una vecchia babushka sorridente. Il materasso mi ricordò quelli d’erbe di mia nonna, in un’infanzia di tanti anni fa.

Tornammo a Kiev di notte, mio figlio esausto ed anche un poco isterico. Anche noi lo eravamo. Era la vodka? La giornata? O era tutto? Questo esser madre e padre di un figlio che ancora non ci apparteneva, che ancora non conoscevamo, che ancora ci parlava parole sconosciute e seguiva ritmi e regole che non capivamo. O forse era solo che eravamo ubriachi di vita?

Ricordo a Phnom Penh

…il sole che arde lontano perso dietro una coltre di nubi bianche. Il caldo arriva ad ondate, strato dopo strato di aria infuocata. All’inizio non lo senti quasi, preso dalle immagini nette di un mondo questa volta sì completamente nuovo. Poi inizi a sentire i vestiti che ti pesano e vedi quest’orizzonte piatto, schiacciato dall’umidità afosa che dal mattino si protrae sino alla notte. Il sole arde lontano, ma tu non lo vedi, lo senti, lo pensi. E’ il sole che tiene viva questa terra riarsa, che cresce le palme e le piante, è il sole che scalda e che brucia, che asciuga i fiumi e che evapora le acque. E’ il sole che ti insegue.

Cammino nel giardino dell’albergo in attesa e mi sento come sospesa. L’albergo è una campana di vetro che ti separa dal mondo fuori, dalla Cambogia che hai appena intravisto arrivando dall’aeroporto in taxi, dal traffico repentino della città, dal caos delle moto e delle biciclette, dai carri che si intrecciano carichi di persone che tornano dal lavoro. Loro con i krama avvolti attorno al volto per non respirare la polvere densa, tu dentro una macchina con l’aria condizionata. L’albergo ti avvolge e separa, il “fuori” è lontano. Cammino nel giardino dell’albergo in attesa e lì il sole sembra più gentile. I suoi raggi trasportano il profumo dei fiori che fitti si arrampicano sui tronchi delle palme. E mi fermo a guardare le orchidee violacee, i gelsomini stellati, petalo dopo petalo in ondate di dolcezza vellutata che ti avvolgono incessanti. Respiro i fiori in Cambogia e non posso fare a meno di ricordare che il nome della figlia che sto per incontrare è il nome di uno quei fiori che ora permeano ora la mia aria. I gelsomini, così leggeri e fragili e intensi, sono ovunque io mi volti.

Mi abituo a respirarli.

Poi, arriva il momento di andare. Di nuovo in macchina, di nuovo Phnom Penh, di nuovo fuori dall’area astratta dell’albergo che ospita gli occidentali. Ci si muove lenti a Monivong. Lente le regole del traffico e strane e dettate da leggi istantanee. Vedi la vita fuori che ferve e sai di essere così lontano da questo mondo. Fuori la prima cosa che noti sono le strade sterrate che si dipanano dall’arteria principale. E lungo i bordi le infinite bancarelle che vendono tutto e ancora oltre le baracche che si accatastano le une sulle altre poco oltre i palazzi delle strade principali. I bambini con la camicetta bianca della scuola camminano veloci e sorridenti accanto ai bambini senza meta che passano da un bidone all’altro, stanchi, accanto ai contadini esausti della giornata che tirano i loro carretti.

E scorre lenta Monivong mentre tu stai andando incontro al tuo futuro e piano piano diventa campagna.

Le case si diradano ed anche le baracche cittadine. Restano rare ville in costruzione dipinte d’oro e di verde. Restano le palafitte e ai bordi delle strade le baracche dove qualcuno vende qualcosa. Restano i bambini nudi che giocano ai margini delle palafitte e le palme e la vegetazione sempre più intensa e verde e umida. Restano i posti di blocco e la polvere della strada. Sino a quando la strada svolta e un cancello ti attende. Mi sento goffa qui in Cambogia, così incapace di rispondere ad un saluto con la naturalezza che richiederebbe. Le mie mani non mi sembrano abbastanza nette nel congiungersi né la mia testa abbastanza veloce nell’inchinarsi, il Satò mi esce in un sussurro ed ho sempre la sensazione di non essere abbastanza garbata. Cerco di non pesare su questa terra scivolando assieme al mio fiore-bambina dal volto dolcissimo e dagli occhi perfetti. Cerco di assaggiare tutto nei pochi giorni che mi restano e di ricordare i profumi e i suoni. So che è poco, troppo poco.

E’ un universo quello che mi accoglie e sento di stare facendo troppo poco, di stare capendo troppo poco. La notte è calda a Phnom Penh e buia. Fuori dai locali illuminati vedi chi ti insegue per un’elemosina e avverti cosa significhi qui stare così. La povertà ha una dimensione diversa in Cambogia.

In questa città si vive per la strada, per strada si lavora e per strada si arrangia il giorno con la notte.

La strada è la vena viva di Phnom Penh e per strada sento di dover andare per capire almeno quel poco che posso capire. Sulle moto in tre mi aggrappo a mio figlio e al conducente maledicendo di avere un marito che nulla evita pur di vivere quello che si può vivere di ogni posto dove cammina. Mi aggrappo con forza ad ogni inversione ad U e tremo capendo che il conducente stesso non ha capito bene dove si debba andare. Bevo la polvere e mi aggrappo alla moto sperando di non finire in un incidente e pensando che in fondo lo dovevo fare. Sui tuktuk a motore posso rilassarmi e lasciarmi andare al vento caldo che mi investe. Sono i tuktuk a portarci ovunque, non più chiusi nei taxi, non più separati.

Nella Pagoda d’argento il pavimento è freddo e l’oscurità fresca. Ascolto la storia di quando il Palazzo reale venne chiuso nell’anno “zero”, quando i Khmer rossi entrarono in città attraverso Monivong, sempre Monivong. Ascolto e come sempre non posso fare a meno di ricordare che erano solo trenta anni fa. Solo trenta in fondo. Impossibile non chiedersi cosa successe al quarantenne che ti passa accanto. Dove erano le persone che ti sono vicine mentre i Khmer rossi uccidevano il paese, persona dopo persona, bambino dopo bambino. Non puoi fare a meno di pensare alla fame ed alla paura e alle guerre ed alle armi che hanno abitato la Cambogia.

Mi fermo a guardare un piccolo Buddha di oro e giada, piccola statua perfetta e senza tempo. La linea delle palpebre chiuse è come l’acqua lasciata sulla sabbia del mare in una mattina senza vento. Sono gli occhi di mia figlia. L’ultima notte a Phnom Penh assaporo lentamente la frutta, la buccia sottile si apre e affondo il coltello nel frutto bianco dolce-acidulo dai semi neri. Mangio piano i frutti. Respiro l’aria densa di orchidee. Saluto i gechi che mi occhieggiano dalle pareti del corridoio. E’ notte ora. Domani saremo a Bangkok.

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